una recensione del nuovo album di Del Palmer
‘Point Of Safe Return’ è il terzo album solista di Del Palmer, e può essere considerato come un importante punto di svolta nella carriera dell’artista, in termini di sforzo creativo, qualità della musica e dei testi, approccio alla produzione. L’album è una raccolta varia, coerente ed elegante di brani, i cui temi spaziano dalla bellezza celtica di ‘Nota Ghra’, in cui il bodhran, l’Irish tenor drum e le Northumbrian e Scottish pipes si innalzano come in una trance, all’apocalittico scenario della tirata ‘Future’, in un apparente svolgersi uniforme di gloriosi e orecchiabili ritornelli lungo il percorso.
L’evidente influsso degli Steely Dan, che era un aspetto rilevante dei precedenti lavori di Del, è qui molto più diluito, sebbene ancora presente nelle sezioni di tastiere e chitarre in un paio di pezzi, come la traccia di apertura (‘This Heart’) che contiene dei vocals celestiali della talentuosa I.V. Webb, la cui voce all’inizio di ‘Gravity’ suona come una preghiera, e la title track, un perfetto esempio dell’abilità di Del nel trovare un ottimo equilibrio tra l’urgente voce delle sue chitarre elettriche, e la bellissima consistenza della linea melodica.
Vocalmente, sembra quasi che Del stia giocando con l’idea di creare un diverso personaggio in ognuna delle cinque tracce contenute nella side one, un’idea che è probabilmente un elemento chiave del lavoro. Quell’approccio romantico e melodioso è presente nella voce di Del, a tratti reminiscente dei più languidi sussurri alla Bryan Ferry, sebbene Mr. Palmer sembri avere molte frecce al suo arco, poiché quest’album di certo contiene le sue migliori performance vocali di sempre.
‘Nota Ghra’ suona incredibilmente intensa, con i delicati backing vocals di Sarah Daly a controbilanciare la profonda, quasi ultraterrena, straordinaria voce di Del, in un trionfo di strumentazioni irlandesi e poesia celtica.
‘Point Of Safe Return’ sembra prendere in prestito la stessa strategica dicotomia usata da Kate Bush per i suoi album ‘Hounds Of Love’ ed ‘Aerial’. Così, mentre la prima parte del disco è in sostanza una raccolta di pezzi diversi tra loro, la seconda è una suite fatta di differenti movimenti, meravigliosamente legati tra loro, che narrano una storia fatta di solitudine, ricordi del passato tornati alla memoria per tormentare l’esistenza del protagonista, scoperta del sé, lotta interiore e riconciliazione.
‘The Inner Dialogue’ può essere in molti sensi definito come la personale sinfonia di Del, con quel suo intimo, a tratti doloroso, viaggio alla scoperta di se stessi. Il suo approccio classico, l’utilizzo di diverse voci di sottofondo e la sua sperimentale ed evocativa qualità narrativa, a tratti rimandano ai Devogue, e al loro intenso album omonimo della fine degli anni novanta.
Un’atmosfera onirica, in cui il malinconico sax di Kevin McAlea gioca un ruolo portante, quasi un personaggio esso stesso, e i cui lamenti fanno di ‘Shadow People’ un inno ondeggiante a ciò che giace nell’ombra, apre l’elaborata complessità della suite che compone la seconda parte del disco.
I testi sono spesso utilizzati in forma di confessioni, segreti rivelati nella solitudine di una notte insonne, a volte con uno sguardo malinconico al passato vissuto come fallimentare, altre in cui una scomoda verità viene impietosamente sputata fuori tra le righe. A tratti criptici ed oscuri, mai banali o inconsistenti, i testi di Del sanno giungere all’anima di chi ascolta, mostrando un’autentica profondità poetica.
Così, i tratti nostalgici in ‘Gravity’ (‘C’è nessuno laggiù/Che guardando in alto/Si chiede di me?’) procedono mano nella mano con quelli metaforicamente carichi del primo ritornello di ‘Future’ (‘I migliori anni della tua vita vissuti sotto terra/Tentando di star lontano dal sole’), che include anche un possibile velato riferimento a ‘Breathing’ della Bush nel secondo verso (‘La scorsa notte in cielo/Un lampo accecante’) ed un triste finale (‘Le cose migliori delle nostre esistenze adesso sono cenere/Solo immagini dal passato’).
L’alternanza di brani più ritmati ad altre più lente composizioni al piano, quasi di ispirazione classica, accompagnate da archi minimalisti di sottofondo, rende ‘The Inner Dialogue’ un fedele viaggio negli alti e bassi di un’anima tormentata, il cui percorso complesso culmina nell’analisi sfaccettata e psicanalitica delle 7 voci interiori, che introducono ‘A Case Of Insomnia’ e il suo sound quasi nipponico, con quella sezione di koto che metaforicamente si rivolge ad una geisha ribelle.
C’è un’interessante qualità circolare nei testi della suite, particolarmente evidente nella sezione di ‘The Saboteur’, che sembra quasi evidenziare il fallimento dell’essere umano, che cerca spesso cose sbagliate in luoghi inadatti e al momento meno propizio, destinato ad apparire una creatura senza speranza nel circo dell’esistenza.
La continua necessità di guardare indietro al passato, forse in cerca di possibili risposte alle domande del presente, è molto tangibile nel ricorrente verso che apre la suite e si ripete più volte, ma ogni volta grazie ad una voce diversa (‘E tutti questi ricordi/Sono ciò che resta/Pensaci/Senti ancora il dolore?/Lo senti?’) subito seguito dalla deludente scoperta di un presente vissuto ancora una volta come fonte di non voluto dolore (‘La roccia su cui costruisco il mio mondo/Non è altro che argilla/Devo sempre prendermi in giro/Per credermi degno di ciò che conquisto’).
Il pezzo più intenso e commovente è probabilmente ‘Acceptance’, in cui l’assolo struggente al piano si combina magicamente all’emozionante performance vocale di Del, nel racconto visivo di una separazione forzata (‘Cerco ciò che resta/In giro per casa/C’è la lettera che mi scrivesti/Un pacchetto mai aperto/Sul pavimento di questa stanza’). Davvero un pezzo straordinario.
L’ultimo brano in ‘The Inner Dialogue’ è la dichiarazione reggae di ‘The Penitent Man’, con quella sua forte sentenza (‘Non voglio vivere in eterno/Ma non voglio neanche scivolare via nell’oblio/E’ assopito ma non è mai del tutto finito/Finché qualcuno viene a bussare alla tua porta’) e i cui ritmi giamaicani, splendidamente fusi ad atmosfere orientali, ancora una volta aggiungono un valore in più alla consistenza multiforme e matura di questo straordinario album.
(foto: Roberta Colladon)
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